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12.3.10

ARROGANZA AL POTERE


Valerio Onida
Il decreto del governo è uno strappo alle regole democratiche. Colloquio con il costituzionalista Valerio Onida - di Gigi Riva
Il Tar, la Commissione elettorale, il Consiglio di Stato. Il ricorso per riammettere la lista. Il ricorso contro il ricorso per riammettere la lista. Una piazza di qua, una piazza di là. Pannella per rinviare le elezioni, Bersani contrario. Il Cavaliere inferocito, Di Pietro che grida al golpe. Benvenuti a Caoslandia, cioè l'Italia del 2010. Dove va in onda l'ormai abituale scontro tra chi vorrebbe rispettare le regole e chi delle regole dice "me ne frego". Tutto nato dal pasticcio delle liste Pdl non presentate in tempo utile. E dal rimedio peggiore del buco del decreto "interpretativo" varato dal governo e firmato da Napolitano. Che viola la Costituzione perché, dice Valerio Onida, 73 anni, presidente emerito della Consulta «impone di applicare la legge in modo diverso da come dovrebbe essere applicata». Quando l'articolo 101 della nostra Carta fondamentale recita: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Con il decreto il potere giudiziario non è più «soggetto soltanto alla legge» ma anche alla volontà del potere esecutivo e di quello legislativo che vorrebbero imporre non una norma per il futuro, ma una "interpretazione" (in realtà una norma diversa da quella vigente) per il passato. Conflitto c'è anche con l'articolo 3 sull'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E ha più di un fondamento la posizione della giunta regionale del Lazio che ritiene spetti alla Regione interpretare la propria legge elettorale. Per orientarsi, bisogna ripartire dall'origine del marasma, da quel decreto in cui Onida vede «l'arroganza» della maggioranza. E la conferma che «il Paese è sfasciato dal punto di vista delle regole».


Professor Onida, se il decreto è la via sbagliata, quale sarebbe stata quella giusta?
«Premessa: l'elettorato si esprime sempre, si esprimerebbe comunque, anche con l'esclusione di una lista. Ma per rimediare a un'incompletezza nata dalla mancata presentazione di una lista l'unico rimedio accettabile sarebbe quello di rinviare le elezioni. Mi riferisco al Lazio. Perché, i casi di Lombardia e Lazio sono diversi».

Spieghiamo le diversità.
«In Lombardia tutto era risolvibile con una corretta applicazione della legislazione vigente. Cosa che peraltro è successa se il Tar ha accolto il ricorso dei sostenitori di Formigoni senza bisogno di citare il decreto del governo. Ma un conto è se manca un timbro, un luogo, una qualifica, o se l'esclusione della lista è avvenuta irritualmente. Altro conto è dire che c'è stata presentazione di una lista quando non c'è stata. E siamo al Lazio».

Lì si dovrebbe rimandare il voto?
«Esatto: si tratta semmai di riaprire i termini. Cosa che non è né normale né fisiologica, ma consentirebbe di rispettare le regole in vigore senza lo strappo dell'intervento del governo. Un conto è sostenere che una lista è stata presentata quando non è vero. Un altro è prendere atto che si sarebbe andati ad una competizione incompleta e, sulla base di un larghissimo accordo, rimettere tutti in gioco».

Invece si è ricorsi al decreto "interpretativo".
«Che, per una parte, non è interpretativo affatto. È una norma sedicente interpretativa, perché riapre i termini in una situazione concreta».

Un abuso, sostiene la giunta del Lazio, anche perché prevarica la competenza della Regione.
«Non so come sia stato argomentato il ricorso del Lazio. So però che c'è una decisione della Corte costituzionale del 2006 (numero 232) in base alla quale si dovrebbe concludere che la competenza a legiferare in materia di elezioni regionali e anche a dare l'interpretazione autentica delle norme vigenti spetta alle Regioni».

Un giudice potrebbe invalidare le elezioni se ritenesse fondate le ragioni della giunta laziale?
«Sì, potrebbe capitare. Se quel decreto legge fosse ritenuto illegittimo verrebbe meno la base normativa per la quale (in ipotesi) sarebbe ammessa la lista Pdl in provincia di Roma e si dovrebbero rifare le elezioni. È già capitato in altre occasioni. Come in Molise».
(11 marzo 2010) 
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